Vita, morte ed eternità in un dizionario a cura di Mircea Eliade e Julien Ries

Vita, morte ed eternità in un dizionario a cura di Mircea Eliade e Julien Ries

Tutte le grandi religioni che sono nate in seno alle civiltà umane hanno posto al centro della loro essenza il rapporto tra la vita e la morte, dove spesso quest’ultima viene considerata un momento di passaggio, una tappa di un viaggio che ha il potere di condurre all’eternità. Elemento che non è esclusivamente riscontrabile in quelle tradizioni sacre legate alle fasi cosmiche e alla ciclicità del tempo delle religioni antiche, o alla reincarnazione come nella cultura orientale, ma anche nelle grandi credenze monoteiste dove l’eternità è considerata un punto di arrivo. Questa antica relazione è indagata nel “Dizionario della vita, morte ed eternità” (Jaca Book, 474 pagine, 50 Euro) a cura di due nomi di cruciale importanza nello studio di tali aspetti delle culture umane: il padre della storia delle religioni, il rumeno Mirceario possono essere considerati come il fulcro della stragrande maggioranza delle espressioni religiose che la storia dell’umanità ha conosciuto; e le coordinate tracciate al suo interno seguendo le riflessioni di Mircea Eliade e Julien Ries compongono un quadro che va dal culto degli antenati all’escatologia, dall’Africa all’Asia passando per l’antica Mesopotamia e le Americhe precolombiane.
Nella storia dell’umanità, quello che da Julien Ries è stato definito l’homo religiosusha assunto via via delle modalità specifiche di esistenza, che si sono espresse attraverso diverse forme religiose e culturali. La persistenza di tali modalità si evince dallo studio dagli stili di vita degli esseri umani fin dalla notte dei tempi. Da sempre l’homo religiosusinfatti crede all’esistenza di una realtà assoluta che trascende questo mondo: egli vive delle esperienze che, attraverso il sacro, lo mettono in relazione con la Trascendenza. L’uomo, seppure con forme esteriori e manifestazioni diversificate, crede all’origine sacra della vita e al senso dell’esistenza come partecipazione a un’Alterità. È pertanto un homo symbolicus, un essere vivente che è in grado di cogliere il linguaggio delle ierofanie, attraverso le quali il mondo gli rivela delle modalità che non sono evidenti di per sé stesse.
A partire dalla fine degli anni ’50 del Novecento, alcuni paleoantropologi hanno scoperto le tracce di quello che è stato definito l’Homo habilis, ovvero il creatore della prima cultura, la cui attività mostra la coscienza di essere creatore. Gli sviluppi di tale coscienza si manifestano nell’Homo erectuse, in modo ancora più preciso, nell’Homo sapiens, grazie alla consolidata pratica dei riti funebri. Le prime sepolture che suggeriscono una certa sicurezza nel poter ipotizzare la credenza in una sopravvivenza alla vita terrena provengono da Qafzeh e da Skuhl, nel Vicino Oriente. Nelle sepolture è stata rilevata la presenza di tracce di cibo e di utensili in prossimità degli scheletri proprio a sottolineare la volontà di chi aveva inumato i corpi di fornire ai defunti tutto quanto fosse necessario per affrontare una nuova vita; si tratta di tombe risalenti al 90000 avanti Cristo circa. A partire dall’80000 avanti Cristo, l’uomo di Neandertal moltiplica questi riti. Dal Paleolitico Superiore, l’Homo sapiens sapiensinizia ad applicare un trattamento speciale ai cadaveri dei defunti: ocra rossa per dipingere parti del corpo, ornamenti attorno alla testa, conchiglie incastonate nelle orbite oculari, perle d’avorio disposte sul corpo. Con l’avvento del Neolitico si moltiplicano i rituali funerari e assumono una simbologia sempre più ricca, segno di un’autentica presenza dei vivi nella immortalità dei loro defunti. È il grande mutamento portato dalla rivoluzione dei simboli, che si rispecchia nella credenza in una vita post mortem e che continua ad influenzare ancora oggi la nostra cultura.

Massimiliano Palmesano

 

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