“I benandanti” di Carlo Ginzburg: sciamani-contadini nel Friuli dei culti agrari

“I benandanti” di Carlo Ginzburg: sciamani-contadini nel Friuli dei culti agrari




A cavallo tra XVI e XVII secolo, in Friuli, i giudici dei tribunali dell’Inquisizione si ritrovarono a dover fare i conti con casi alquanto anomali: alcune persone, uomini e donne accusati di stregoneria, durante gli interrogatori asserivano di recarsi in particolari notti a combattere contro streghe e stregoni per difendere la fertilità dei campi. Le storie e la tradizione di tali protettori delle coltivazioni dalle malie delle streghe ci è nota grazie al libro di Carlo Ginzburg, “I benandanti – Stregoneria e culti agrari tra ’500 e ’600” (Adelphi, 311 pagine, 24 Euro), pubblicato per la prima volta nel 1966 da Einaudi. All’interno del volume una cospicua documentazione processuale viene integrata con studi e ipotesi di lavoro che pescano a piene mani in discipline quali l’antropologia e la storia delle religioni.
Le confessioni dei “ben andanti” portarono alla luce un universo religioso contadino che sfuggiva alle categorie degli inquisitori. Si trattava di anomalie narrative se messe a confronto con i processi coevi: i “ben andanti”, nonostante le accuse, non si consideravano streghe o stregoni, anzi dicevano di combatterli. Né, inoltre, professavano dottrine che in qualche modo li potevano accostare al composito fermento ereticale che in quegli anni si muoveva anche in Friuli. Eppure per i giudici andavano perseguitati e processati. L’universo culturale e rituale dei “ben andanti” si discostava, e non di poco, dallo stereotipo che si era costruito in Europa intorno alla figura della strega. I “ben andanti” erano guaritori contadini che acquisivano i loro poteri fin dalla nascita: secondo la tradizione, chi nasceva con la placenta era destinato a diventare “ben andante”; da un brandello essiccato della sacca amniotica veniva confezionato un amuleto che il proprietario portava con sé tutta la vita e, nel caso lo avesse smarrito, i suoi poteri di recarsi quattro volte all’anno alle battaglie contro le streghe per la difesa dei campi sarebbero svaniti. 
Ma in che modo avvenne l’incontro con i “ben andanti”? Come siamo riusciti a recuperare e conoscere questa antica narrazione? Nella seconda metà degli anni ’60, un giovane e inquieto Carlo Ginzburg, intriso delle riflessioni e dei pensieri di Antonio Gramsci e di Marc Bloch, cercava di districare la matassa di quella che in un primo momento aveva percepito come una sorta di lotta di classe primordiale, ma che successivamente inquadrò in modo più preciso all’interno di un ampio scenario di scontro tra concezioni del mondo diverse impersonate dagli inquisitori da un lato e dagli inquisiti dall’altro. Senza un vero programma, lo stesso Carlo Ginzburg afferma di aver proceduto “a caso”: cominciò a girare per archivi alla ricerca di materiali, frammenti e tracce; e fu proprio per caso che nel fondo inquisitoriale dell’archivio di stato di Venezia si imbatté in una busta contenente le carte di alcuni processi del tardo ’500. Così Carlo Ginzburg rinvenne i verbali del processo nei confronti di Menichino da Latisana, un giovane bovaro friulano processato nel 1591, che si definiva “benandante”: una parola che fino a quel momento lo studioso non aveva mai sentito. Nei verbali Menichino spiegava all’inquisitore che i “ben andanti” erano coloro che erano nati con la “camicia” e che, quattro volte all’anno durante le tempora, si recavano in spirito nel prato di Iosafat a combattere contro streghe e stregoni per la fertilità dei campi. Carlo Ginzburg rimase stupito nel leggere le dichiarazioni di Menichino, uno stupore che probabilmente dovette condividere con l’inquisitore che secoli prima aveva interrogato il giovane bovaro. Per spiegare tale complesso sistema di credenze, Carlo Ginzburg traccia paralleli con la tradizione sciamanica euroasiatica: l’estasi sembrava avere un ruolo determinante anche nei racconti e nelle funzioni sociali dei “benandanti” in Friuli. Nella ristampa de “I benandanti” (ora da Adelphi), Carlo Ginzburg all’interno della postfazione ricostruisce le intuizioni ma pure i limiti dell’impianto del suo libro, a partire proprio dalla suggestione sciamanica, in uno scritto denso di saperi e di osservazioni che danno la possibilità di rileggere il saggio da una visuale rinnovata.

Massimiliano Palmesano

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